di Andrea Striano
Negli ultimi anni, in ogni convegno dedicato all’innovazione tecnologica e digitale, si è affermato un concetto ormai diventato quasi un mantra: “L’intelligenza artificiale cambierà tutto”. Tuttavia, nonostante la frequenza con cui questa frase viene ripetuta, nel dibattito pubblico e politico nazionale manca spesso un approfondimento cruciale: cambierà come? E soprattutto, per chi?
Non basta più, infatti, limitarsi ad adottare le tecnologie di intelligenza artificiale come strumenti esterni e neutrali, da applicare meccanicamente ai processi produttivi o ai servizi. Occorre guidare questa rivoluzione, plasmare l’AI affinché sia realmente al servizio delle nostre comunità, della nostra cultura, della nostra identità. Perché in assenza di un processo di radicamento culturale e linguistico, il rischio è evidente e concreto: l’AI rischia di diventare un vettore di omologazione globale, un fattore che annulla le differenze, mette in discussione la nostra unicità e mina il valore distintivo del Made in Italy.
Il Made in Italy non è solo un marchio, ma un universo di valori, di tradizioni, di saperi artigianali, di innovazioni culturali che si sono sviluppate nei secoli e che sono strettamente legati alla nostra lingua, al nostro modo di raccontarci e di raccontare i nostri prodotti. L’intelligenza artificiale, se non istruita e formata su questo patrimonio, rischia di svuotare di significato tutto ciò che ci rende unici, trasformando un’occasione in una minaccia.
Siamo spesso portati a considerare l’AI come un mero moltiplicatore di efficienza: una tecnologia che analizza dati, ottimizza processi, accelera decisioni. Ma esiste un aspetto meno visibile, eppure altrettanto strategico: ogni modello di intelligenza artificiale generativa è, a tutti gli effetti, un prodotto culturale. Quando un algoritmo propone un design, una ricetta, una strategia di marketing, non lo fa “dal nulla”, ma si basa su dati, modelli e linguaggi che ha appreso da fonti preesistenti. Queste fonti, nella maggior parte dei casi, provengono da contesti culturali, linguistici ed economici anglosassoni o asiatici, con codici e valori spesso molto diversi dai nostri.
Affidarsi esclusivamente a modelli addestrati su database esteri significa quindi rischiare di vedere la nostra manifattura, la nostra gastronomia, il nostro stile comunicativo tradotti in uno standard globale anonimo, uniforme, incapace di esprimere l’autenticità e la qualità che contraddistinguono il Made in Italy. Un’intelligenza artificiale incapace di riconoscere il valore di un ricamo artigianale, la complessità della filiera di un prodotto DOP, o l’equilibrio unico tra funzione e forma tipico del design italiano, rischia di generare prodotti, contenuti e servizi svuotati della nostra identità, perdendo così il nostro vantaggio competitivo.
È importante sottolineare che questo tema non riguarda solo l’aspetto culturale, ma ha anche un impatto economico strategico di lungo termine. La forza del Made in Italy si fonda sul suo posizionamento premium, sulla capacità di offrire non solo un prodotto, ma una storia, un’esperienza, un’autenticità che non si presta alla standardizzazione. Standardizzare significa svalutare, significa mettere a rischio un patrimonio che ha contribuito negli ultimi decenni alla crescita continua dell’export nei settori simbolo del nostro Paese: agroalimentare, moda, design, meccanica di precisione e molti altri.
In questo contesto, emerge la necessità di costruire un’AI autenticamente italiana, capace di comprendere, valorizzare e promuovere il nostro patrimonio produttivo e culturale. Per farlo, serve investire nella creazione di dataset che rappresentino la complessità e la ricchezza delle nostre realtà produttive, includendo contenuti digitali in lingua italiana e, perché no, nei dialetti locali, e archivi delle eccellenze territoriali. Serve poi sviluppare modelli di intelligenza artificiale addestrati su criteri qualitativi e non solo quantitativi, in grado di distinguere tra un formaggio artigianale e uno industriale, tra un abito sartoriale e uno prodotto in serie, tra un restauro conservativo e un semplice render indistinto.
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, è indispensabile un impegno coordinato e condiviso tra tutti gli attori coinvolti: istituzioni pubbliche, imprese private, università, centri di ricerca e territori. È necessaria una vera e propria politica industriale dell’innovazione, che indirizzi le risorse pubbliche e private verso lo sviluppo di un’AI che parli italiano e riconosca il Made in Italy come valore da tutelare e potenziare.
Fortunatamente, il quadro normativo e finanziario europeo e nazionale offre strumenti e opportunità importanti: il Fondo per l’Intelligenza Artificiale, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), i programmi Horizon Europe e il ruolo crescente di CDP Venture Capital rappresentano risorse fondamentali da canalizzare verso iniziative concrete. Queste devono includere il sostegno a startup e imprese innovative che sviluppano soluzioni AI nei settori strategici del Made in Italy, la creazione di centri territoriali di competenza per le PMI, e la formazione di nuove professionalità in grado di trasferire la cultura produttiva nei modelli digitali.
L’Italia non è in ritardo, ma si trova davanti a un bivio decisivo. Mentre l’Europa definisce regole e standard sull’intelligenza artificiale, e le grandi aziende internazionali elaborano scenari di convivenza tra umano e digitale, il nostro Paese può scegliere se restare spettatore passivo oppure diventare protagonista attivo di questa rivoluzione.
Chi costruisce i modelli di AI determina, di fatto, le regole del mercato e il modo in cui il futuro sarà plasmato. Se vogliamo che il Made in Italy continui a essere riconosciuto, desiderato e apprezzato in tutto il mondo, dobbiamo fare una scelta chiara e coraggiosa: pretendere che l’intelligenza artificiale lo conosca, lo capisca, lo rispetti. E, soprattutto, lo parli. In italiano.
Solo così potremo garantire che l’innovazione tecnologica diventi uno strumento di valorizzazione delle nostre eccellenze, una leva per una crescita sostenibile, inclusiva e autentica. Perché l’intelligenza artificiale non sia un fattore di omologazione, ma il motore di un rinascimento digitale tutto italiano.


