FORMARE OCCUPATI E DISOCCUPATI: una priorità con diverse difficoltà

di Romano Benini



Per poter limitare i rischi determinati dall’andamento demografico in corso sulla nostra società ed economia, con la conseguente diminuzione della forza lavoro, la parte della popolazione in condizione di lavorare, è del tutto evidente che si deve agire per aumentare il numero degli occupati e far diminuire gli inattivi, ossia coloro che, pur facendo parte della forza lavoro, non cercano lavoro. L’Italia ha una percentuale di occupati tra le più basse ed una di inattivi tra le più alte d’Europa, si tratta di un problema che limita non solo le potenzialità di crescita economica, ma anche la tenuta dei conti pubblici. Tuttavia abbiamo due buone notizie. Ci troviamo in questi mesi in una condizione favorevole per invertire la rotta determinata dalla spinta della domanda delle imprese.
Aumentano occupati e i disoccupati, e diminuiscono gli inattivi. La speranza degli inattivi che li spinge a cercare un lavoro è un segnale non solo di un bisogno, determinato anche dalla fine della stagione del reddito di cittadinanza dato agli occupabili, ma anche di fiducia nella presenza di maggiori opportunità di impiego.
Tuttavia, siamo all’inizio di una fase che può portare ad allinearci alle nazioni che hanno un mercato del lavoro più efficiente del nostro, come la Francia e la Germania, solo con l’avvio di una strategia efficacie di politiche pubbliche di sostegno all’attivazione ed al lavoro. L’Istat segnala che siamo arrivati al 62% di occupati tra i 15 ed i 64 anni, che diventa il 67 se consideriamo il dato 20-64, il criterio di computo forse più corretto usato dalla Commissione Europea. L’Italia si colloca solo dietro la Spagna nella classifica dei paesi in cui l’occupazione è cresciuta di più negli ultimi mesi. Tuttavia restiamo lontani dal 74% che è il dato francese degli occupati tra i 20 ed il 64 anni, che rappresenta la percentuale di riferimento per tenere in sicurezza l’impatto sui conti pubblici dell’andamento demografico.
Per arrivare a questa percentuale dovremmo mettere al lavoro nei prossimi 4 anni almeno 5 milioni di italiani: dobbiamo aumentare gli occupati in una fase di passaggio generazionale. La generazione più numerosa di italiani della storia lascia infatti il posto alla generazione in età di lavoro meno numerosa forse da secoli. Nei prossimi 4 anni andranno in pensione circa tre milioni di italiani e per sostituirli ed al tempo stesso rimetterci in ordine con la tendenza demografica e sostenere la crescita dovremmo creare 5 milioni di posti di lavoro, di cui 3 milioni e mezzo di rimpiazzo e almeno un milione e mezzo di posti generati dall’ occupazione espansiva. Il vento è favorevole e tira nella giusta direzione, se guardiamo alla domanda delle imprese, ma se guardiamo la capacità del nostro mercato del lavoro di rispondere alla domanda aumentando di conseguenza gli occupati è del tutto evidente che la barca sta ancora incagliata nelle manovre al porto di partenza. Il disallineamento tra domanda ed offerta di competenze lascia infatti scoperti nel 2024 circa il 48 per cento dei posti offerti dalle imprese.
La soluzione è quindi quella di spostare decisamente, come chiede fermamente la Commissione Europea, le politiche del lavoro dalla stagione degli incentivi a quella delle competenze. Cresciamo la metà di quanto potremmo per l’inadeguatezza nella capacità di risposta alla domanda di competenze da parte del sistema formativo e nella capacità di gestione e promozione dell’orientamento e dell’accompagnamento al lavoro da parte dei servizi per il lavoro. Formare i nostri attuali disoccupati per accompagnarli al lavoro è fondamentale, visto che, anche in ragione della transizione economica in corso, la maggior parte di chi cerca lavoro ha bisogno per essere resa occupabile di un percorso formativo. Formare gli occupati è altrettanto importante, per poter prevenire la disoccupazione, acquisire le competenze richieste dall’azienda e migliorare in termini di capacità di innovare e di produrre, aumentando il valore aggiunto. Questo avviene sia attraverso i percorsi di formazione formale, ossia quella che attribuisce un diploma ed una qualifica attraverso un ente formativo esterno all’impresa, e le diverse modalità di formazione non formale, soprattutto quella aziendale promossa dai fondi interprofessionali. Dobbiamo rompere il circolo vizioso del lavoro italiano, che va visto partendo dall’accesso all’apprendimento: poca formazione determina basse competenze, che a loro volta generano lavoro povero e bassi salari ed alimentano un’economia a basso valore e poco produttiva. I trattamenti retribuitivi in Italia sono fermi da 20 anni non solo per via di un patto sociale definito decenni fa per sostenere la crescita, ma soprattutto per la permanenza di una larga componente di imprese a scarsa produttività e valore aggiunto in cui prevale una manodopera con competenze basse ed obsolete. Con salari inadeguati si produce meno, si innova poco e conseguentemente si è meno competitivi. Le ragioni dei patti per i contenimenti dei salari andavano bene in un’altra fase storica, ma oggi portano l’Italia fuori dalla catena globale del valore.